Che cos’è l’etnoclinica sistemica?
Pietro Barbetta
L’importanza dell’antropologia per la formazione in psicologia
Da quasi trent’anni, come psicologo e psicoterapeuta sistemico, lavoro in un campo che ho recentemente definito “etnoclinica”. Forse perché, fin da giovane, durante i miei studi, avevo ascoltato, letto e studiato gli antropologi italiani – Ernesto De Martino, Vittorio Lanternari, Alberto Mario Cirese – e avevo studiato con Tullio Tentori. Tuttavia le prime suggestioni, ancora ventenne, le ebbi da Annamaria Rivera. A quell’epoca – siamo nel 1976 – si discuteva sull’antropologia dell’orgasmo, tema che interessava autori come Gregory Bateson e Claude Lévi-Strauss. Freud era già, per me, un grande palinsesto da esplorare.
In quegli anni mi incuriosiva il Tarantismo, che aveva luogo in un paese della Puglia, regione dove vivevo e studiavo. I filmati di Ernesto De Martino mostravano una sorta “psicopatologia popolare” ricorrente: le contadine che camminavano scalze nel campo potevano venire morse dalla tarantola e il morso produceva una reazione di trance simile all’epilessia. Ogni anno, nel giorno di San Paolo, a Galatina, presso l’omonima chiesa, tutte le donne che erano state morse, tornavano ad avere, per quel giorno, gli stessi attacchi, erano rimorse dal ragno. Di qui il nome del luogo: la terra del rimorso.
Come noto, rimorso ha a che fare con la coscienza, come quando da piccoli l’educatore, quando fai qualcosa di negativo, ti dice: “non ti rimorde la coscienza?”. Pensate per esempio alle prime teorie di Freud sul vincolo psichico: una bambina subisce un trauma, ma non può esprimere ciò che le accade, non lo concepisce. Tempo dopo emergono dei sintomi che sembrano connessi a una malattia fisica, senza cause organiche. Il dolore fisico, come un morso nella carne, è memoria del corpo, muta, indicibile. Potremmo dire che il ricordo di qualcosa di spiacevole è rimorso individuale. Nel Tarantismo invece è rimorso collettivo delle donne, un rito femminile.
Oggi capita a molte donne e uomini richiedenti asilo: sentire di nuovo il morso dei dolori delle torture, delle violenze subite, spesso però questi dolori hanno un riscontro medico: stupri, torture, violenze lasciano il segno ben visibile.
Tra le persone che avevano lavorato con De Martino c’era Letizia Comba, una psicologa che più tardi si aggregò all’équipe di Basaglia a Gorizia, i suoi scritti, tra il 1967 e il 2000, si trovano ora in Tessere, per l’editore Il Saggiatore.
L’importanza degli studi sulla comunicazione tra culture
Tempo dopo, mi recai a studiare per un periodo in Massachusetts, ad Amherst. Laggiù c’erano molti psicoterapeuti che ammiravo: Lynn Hoffman, Carlos Sluzki e Janine Roberts – con lei feci un corso di Terapia Familiare. C’erano alcuni studiosi di Comunicazione che facevano ricerca qualitativa sulla comunicazione terapeutica, i due ricercatori che guidavano il team erano Barnett Pearce e Vernon Cronen; mi aggregarono a loro e, con mia sorpresa, scoprii che analizzavano le sedute del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, la Scuola che stavo frequentando. Molte di queste sedute erano in inglese, giacché Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin si recavano spesso in paesi anglosassoni per consulenze e supervisioni, altre erano in italiano. In questo caso interessava loro osservare le espressioni del viso, il linguaggio del corpo, il tono della voce dei partecipanti e dei terapeuti.
Ad Amherst c’era anche un importante epistemologo costruttivista, Ernst von Glasersfeldt, che avevo studiato in Italia, grazie a Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi. Due anni più tardi, durante un Congresso a Filadelfia, conobbi anche Heinz von Foesrter. Von Glasersfeldt mi fu presentato da un terapeuta familiare che lavorava a Pittsfield, sempre nel Massachusetts, con Carlos Sluzki: Marcelo Pakman. Io e Pakman finimmo per collaborare durante questi trent’anni e continuiamo a lavorare insieme intorno a un progetto teorico e clinico che abbiamo chiamato Pensar la clinica – il 14/15 maggio prossimi saremo a Milano a parlarne in un seminario di due giornate.
Dall’insegnamento di Amherst imparai che il termine “cultura” è una solidificazione concettuale della comunicazione, come il ghiaccio è una solidificazione dell’acqua. La questione principale per chiunque studi la comunicazione (quindi anche per un terapeuta) è l’incontro tra culture, che può avere il potere di cambiarle, producendo qualcosa di nuovo. Così come il Jazz, che nasce dall’incontro tra musica classica europea, musica africana e sonorità orientali. Divenire umano.
L’immigrazione in Italia
A partire dalla metà degli anni Ottanta, iniziò, in Italia, il processo d’immigrazione. Fino ad allora, come italiani, conoscevamo solo l’emigrazione, dal Sud al Nord, dall’Italia verso i paesi europei più ricchi, nel secondo dopoguerra, e dall’Italia alle Americhe, a partire dall’Ottocento. Negli Stati Uniti era il contrario, quando arrivai esistevano già da tempo protocolli prestabiliti per le varie forme di accoglienza: scolastica, sanitaria, lavorativa, culturale, ecc.
Tuttavia molti operatori, a partire dagli anni Settanta, manifestavano un forte disagio nello stare dentro questi protocolli rigidi e cercavano di aprire il setting clinico e sociale ad altre forme di intervento più flessibili. Sulla base delle ricerche in psicologia sociale, nascevano terapie comunitarie, interventi di gruppo, lavori con famiglie povere, spesso migranti, senza tetto, e nascevano le terapie familiari. Tra i primi, a New York, lo psicoanalista Nathan Ackerman iniziò a vedere famiglie, anziché individui. Di là nacquero varie equipe terapeutiche che avevano questa caratteristica: non si trattava di essere “migrantologi” (esperti in terapie coi migranti), bensì di accogliere la chiave etnico-culturale come strumento terapeutico.
Quando iniziarono le migrazioni nel nostro paese, ringraziavo i migranti perché attraverso di “loro”, capivo come eravamo “noi”. Iniziavo a intuire una cosa che avevo imparato durante il corso di psicologia sociale in università. Allora avevamo studiato Lo straniero. Un saggio di psicologia sociale di Alfred Schutz. Schutz usava spesso questa espressione, connessa con dei trattini, come fosse un termine unico: dato-per-scontato (taken-for-granted). Imparai che la posizione dello straniero, in terapia, serviva a mettere in discussione i miei pregiudizi, mi aiutava a chiedermi continuamente: sarà proprio così? Imparai che il metodo scientifico non verifica le proprie ipotesi, al contrario cerca di confutarle e che la statistica – avevo preso 30 in statistica e l’avevo studiata di nuovo al dottorato – non è “il metodo scientifico”, ma uno strumento da usare “con cautela”.
Frequentavo una scuola di terapia che mi insegnava a “non innamorarmi troppo delle mie ipotesi”. Era una palestra per imparare a non dare sempre le cose per scontate. Non credere più religiosamente ai test, usarli in modo alternativo e relazionale, non cercare di trovarne sempre di nuovi e più “standardizzati” era dura!
Tu pensavi di avere finalmente trovato l’interpretazione giusta e dovevi imparare che, proprio quando pensavi così, sbagliavi. Mi capitò la stessa esperienza che Giulia Lazzarini racconta nel monologo teatrale “Muri prima e dopo Basaglia”. In quel monologo Giulia Lazzarini recita la parte dell’infermiera che, dopo l’apertura del manicomio, perde ogni punto di riferimento e va da Basaglia a chiedere cosa deve fare. Basaglia le risponde all’incirca così: adesso non bisogna più obbedire al dottore, prendi la tua responsabilità: “Alora me son mesa in analisi!” conclude Lazzarini.
Lo stesso accadde anche a me. Poi imparai lo psicodramma e iniziai a fare un training teatrale.
Nel frattempo, oltre che in Italia, mi è accaduto di lavorare in America Latina o, negli Stati Uniti, con persone latino-americane. Ad Amherst torno ogni paio d’anni, insegno in un corso estivo di terapia sistemica in spagnolo diretto da Marcelo Pakman e Carlos Sluzki. In Massachusetts ho attraversato l’esperienza delle famiglie e delle persone portoricane che vivono nel New England e ho osservato come il sistema di welfare, in quell’area degli Stati Uniti, funzioni in maniera “svizzera”.
Poi Buenos Aires, dove il CMTF ha rapporti con il Centro Familias y Parejas per lo scambio temporaneo di studenti e docenti, Città del Messico, dove esistono accordi analoghi, Cordoba (Argentina), Bogotà, Rio de Janeiro, Porto Alegre, Brasilia, San Paolo del Brasile. Questi trent’anni sono passati in un baleno, i figli sono diventati grandi, e ora stanno attraversando esperienze analoghe a quelle raccontate qui, magari in altri campi. Di attività clinica ne ho fatta in quantità, ma ho sempre pensato che potevo sbagliarmi, la forza di un terapeuta è l’avere sempre ben presente la sua fallibilità, la rinuncia a essere onnipotente, a spiegare tutto, anche sul piano teorico, la distanza da ogni esperienza gergale, la coscienza che i tuoi strumenti possano non essere adeguati a ogni circostanza, la propria imperfezione e soprattutto che le nostre teorie di scuola non ci dicono tutto, non sono perfette. Così nasce, dopo anni di pratica terapeutica, l’etnoclinica sistemica.
Matrici culturali della diagnosi
L’idea delle matrici culturali della diagnosi nasce da una semplice riflessione di Marcelo Pakman, oltre che dall’insegnamento di Cronen e Pearce. Pakman racconta che, visitando negli Stati Uniti un centro di formazione universitaria per l’insegnamento della terapia interculturale, si impartivano lezioni teoriche e si insegnavano esperienze cliniche locali riguardanti le “minoranze”: cinesi, italiani, latinos, ebrei, arabi, polacchi, neri, ecc. Tuttavia non c’era nessun corso dedicato alle persone o alle famiglie tipicamente nordamericane, i cosiddette WASP (White Anglo-Saxon Protestant). La psicologia e la psicoterapia “interculturale” era concepita come un adattamento culturale di “loro” a “noi”. Di per sé l’dea poteva essere interessante, ma non aveva alcuna giustificazione storica e produceva fenomeni di emarginazione sociale, che spesso sfociavano nella patologia. Ci sono “minoranze” o soggetti che, per differenti ragioni, hanno maggiori difficoltà, o rifiutano un tipo di adattamento assimilativo, si tratta di un problema che era già emerso in Europa all’inizio del Novecento, per esempio a proposito della dialettica assimilazione/testimonianza tra gli Ebrei.
Gli Stati Uniti non erano solo rappresentati dalle Happy Families descritte dai settimanali benpensanti. Arthur Miller aveva scritto Morte di un commesso viaggiatore, dedicato al disastro di una famiglia della classe media, poi nasceva la letteratura On the Road, Woodstock, le protesta nera, il Jazz, ecc. C’era un nuovo interesse per l’arte e la letteratura africana, orientale. Si leggeva la traduzione dall’arabo di Pane nudo di Mohamed Choukri, che insieme ad Allen Ginsberg, Paul Bowles – ricordate il film di Bertolucci Il tè nel deserto? – e altri aveva fatto parte della Beat Generation. C’erano Charles Bukowski e Jackson Pollock! Devianze, che producevano nuove forme espressive artistiche e culturali, influenzavano anche i migranti, insomma non era un semplice melting pot, era un flusso di esperienze in divenire.
Quando entrai in università come ricercatore, a quarant’anni, avevo l’idea, e forse a quell’epoca era ancora possibile, che quel luogo ospitasse nuove idee e coltivasse esperienze creative. Così proposi, a un gruppo di colleghi, prevalentemente clinici esterni all’università, di partecipare a un Forum sulle Matrici Culturali della Diagnosi. Venivano molti psicologi che lavoravano con le migrazioni, medici e psichiatri di varie realtà e vari tipi di formazione clinica.
Era l’epoca del DSM-IV e si cercava di capire come mai gli aspetti culturali della diagnosi fossero relegati in una piccola appendice del Manuale, mentre le diagnosi del resto del testo fossero considerate “universali”. Questo ci portò, ben presto, a considerare le radici storico-sociali della psichiatria e della psicologia. Ci furono di aiuto testi come Le matrici sociali della psichiatria, di Bateson e Ruesh, La storia della follia di Foucault, oppure le opere di Georges Devereux, di Frantz Fanon e infine di Tobie Nathan. Ci aiutò ancora di più la discussione di casi clinici.
Scoprimmo che cultura è un termine sufficientemente sfumato da permetterci di analizzare i linguaggi, le tradizioni spirituali, le radici familiari – tri, quadri, penta-relazionali, l’origine dei nomi propri, le continuità e le cesure storiche nella famiglia, nella comunità, con il paese di origine, il campo delle eredità bio-psico-sociali della patologia e del benessere.
Ci accorgemmo che il metodo del colloquio clinico inaugurato presso la scuola di Milano era fecondo e poteva esser corroborato da idee psicoanalitiche junghiane e post-freudiane, dagli studi antropologici menzionati sopra, dalle espressioni religiose e letterarie di tutto il mondo, dalle filosofie, dai modi di pensare, dalle politiche, dalle epistemologie della complessità, ecc.
Questo è anche il progetto per il futuro. Abbiamo aperto un servizio di etnoclinica che sta lavorando con pochi soldi e molto entusiasmo, che si avvale delle esperienze di tirocinio dei nostri allievi di specialità e, presso il CMTF, abbiamo proposto una formazione per psicologi e medici, il nuovo Forum sulle Matrici Culturali della Diagnosi, che parlerà di “loro” e di “noi”, ma soprattutto di “noi”, del nostro modo di vedere l’altro, del nostro inconscio culturale.
Per chi fosse interessato:
Il 16 aprile ci sarà un seminario sulle famiglie migranti con Micol Ascoli (Psichiatra culturale a Londra) e Cristobal Bonelli (Terapeuta Familiare e Antropologo a Santiago del Cile/Amsterdam)
Il 14 e 15 maggio “Pensar la clinica” con Marcelo Pakman (Psichiatra e Terapeuta Familiare ad Amherst/Buenos Aires) e Pietro Barbetta (Direttore del CMTF)
A partire da Settembre Forum sulle Matrici Culturali della Diagnosi.
Per maggiori informazioni: www.cmtf.it